Leggo/Vedo/Ascolto




RICEVIAMO DA ETICAMENTE

Cari soci e simpatizzanti
questa è la settimana di Eticamente!!!

Decima Edizione – dal 5 al 10 giugno 2012
Cintello di Teglio Veneto – Portogruaro – Concordia Sagittaria – Fossalta di Portogruaro
IL CORPO SEQUESTRATO
Il diritto alla salute, la politica, l’economia, la dignità
Un programma come al solito molto ricco e stimolante. Domenica alle 18:00 c'è anche il nostro Maurizio Pallante!


Il nostro circolo è presente con un banchetto nelle giornate di Venerdì 8, Sabato 9 e Domenica 10 dalle 16:00 alle 22:00. 
Cercasi volontari per presidiare per qualche ora il banchetto. Chi viene?
Scriveteci le vostre disponibilità al più presto!


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Movimento Decrescita Felice - Circolo Livenza Tagliamento 


La decrescita felice è la possibilità di realizzare un nuovo Rinascimento, che liberi gli uomini dal ruolo di strumenti della crescita economica e ri-collochi l’economia nel suo ruolo di gestione della casa comune a tutte le specie viventi in modo che tutti i suoi inquilini possano viverci al meglio. 

Maurizio Pallante



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RICEVIAMO E SEGNALIAMO

Rispetto al programma in oggetto, segnaliamo le due iniziative in cui il nostro centro è direttamente coinvolto
 

Sabato 14 aprile ore 10.00

palazzo municipale - sala consiliare

Presentazione della mostra “Il libro scolastico: dal testo unico di Stato

al libero testo: scuole, maestri, alunni nel territorio di Portogruaro
(1923-1945)”

 visitabile dal 14 aprile a 12 maggio.



Giovedì 19 aprile ore 18.00
palazzo municipale - sala consiliare
Presentazione del libro “Nelle terre basse “ di Mario Pettoello

Cordiali saluti
Centro di Documentazione Aldo Mori



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 Il testamento della fornace: perchè resti la memoria
Pubblicato il 27 gennaio 2012, da Senza categoria

Jossel Rachover, ebreo austriaco, scrive questo ultimo testamento il 18 gennaio 1943, dal ghetto di
Varsavia, mentre le ss stanno piegando gli ultimi eroici resistenti. Vi morirono 50.000 ebrei.
Per chi vuole ricordare, per chi vuole sapere.
Io, Jossel, figlio di Jossel Rachower di Tarnopol, scrivo queste righe mentre il ghetto di Varsavia è
in fiamme La casa in cui mi trovo è una delle ultime che non bruciano ancora. Da alcune ore ci
troviamo sotto un violento fuoco d’artiglieria; intorno a noi i muri crollano. Come quasi tutte le
altre case del ghetto, molto presto anche questa diventerà tomba dei suoi abitanti e difensori.I raggi
dorati del sole che penetrano nella mia stanza, questa stanza da cui per giorni e notti ho colpito il
nemico mirando attraverso la finestra, mi avvertono che il giorno sta per finire. Il sole non può
sapere come non me ne importa più nulla di non vederlo più sorgere. Ci è accaduto qualcosa di
strano; ogni nostra idea, ogni nostro sentimento è cambiato. La morte brutale che si avventa su di
noi ci appare come una liberazione, una salvezza, poiché spezza le nostre catene…
Amo molto le bestie della foresta e mi fa dispiacere quando si paragonano a loro quegli esseri
malvagi la cui rabbia si sta scatenando al momento presente se tuta l’Europa. Non è vero che Hitler
ha in sé qualcosa di bestiale; a mio parere è il prodotto tipico dell’umanità moderna. Questa umanità
l’ha generato e lo ha formato ed egli non è altro che l’espressione dei suoi istinti più profondi e
nascosti. Le migliaia di uomini che godono del giorno, del sole, della luce dell’immenso universo…
non hanno idea della massa di tenebre e di sventura che il sole ci porta. È diventato uno strumento
nelle mani di malviventi. È stato adoperato come riflettore per scoprire le tracce di quelli che
cercavano di salvarsi. Quando me ne stavo nascosto nei boschi con mia moglie e i miei bambini, i
miei sei figli, ci ha consegnato a quelli che ci davano la caccia.Non dimenticherò mai la gratitudine
di fuoco tedesco che si abbatté sui fuggiaschi sulla strada che da Grodno porta a Varsavia. Al
sorgere del sole si levarono anche gli aerei e cominciarono il loro massacro. Mia moglie morì
durante quella carneficina con il nostro bambino di sette mesi tra le braccia. Due dei cinque figli che
mi restavano scomparvero in quel giorno. Si chiamavano David e Jehuda, l’uno aveva quattro anni,
l’altro sei. Al tramonto del sole, i pochi sopravvissuti partirono in direzione di Varsavia. Ma io e i
miei tra ultimi tre bambini abbiamo setacciato i boschi e campi sul luogo del massacro alla ricerca
dei miei figli perduti. Le nostre voci tagliarono il silenzio dei morti come coltelli per tutta la notte:
David! Jehuda! Ma soltanto un’eco impotente e straziante rispondeva alle nostre grida come
preghiera di un moribondo. Non ho più rivisto i miei bambini. In un sogno mi raccomandarono di
non cerarli più perché erano nelle mani di Dio. Gli ultimi due miei figli morirono nel ghetto di
Varsavia. Rachele, la mia bambina di dieci anni, aveva sentito dire che spesso nei cestini dei rifiuti
della città, fuori dal ghetto, si trovavano degli avanzi di pane. Si pativa la fame nel ghetto; gente
affamata giaceva come spazzatura per le strade.
Eravamo disposti a qualsiasi genere di morte, ma non a morire di fame. Probabilmente vi è
un’ultima passione che sopravvive ancora nell’uomo quando le altre sono morte: la fame, anche
quando si desidera morire.
La mia bambina mise in atto il suo piano con un’amica di undici anni. Di notte, nell’oscurità,
scivolò fuori di casa. La trovarono poco dopo prima dell’alba, fuori dalle mura, con la sua amica.
Dei malviventi a dozzine si misero a dare la caccia alle due bambine affamate. Non potevano
correre a lungo. La mia bambina cadde a terra sfinita; i nazisti le strapparono la testa a colpi di
baionetta. Il quinto figlio, Giacobbe, è morto di tubercolosi nel giorno del suo Barmizwah. La sua
morte fu una liberazione. L’ultimo figlio, una ragazza di quindici anni, Chawe, è morta durante un
rapimento di bambini che cominciò all’alba di Roschhaschanna (Capodanno) e terminò al tramonto
del sole. Centinaia di famiglie ebree hanno perduto i loro figli in questo modo. Ed ecco è giunta la
mia ora. Come Giobbe posso anche io dire – e non sono il solo – “Nudo sono nato, nudo ritorno alla
terra”.
DIO CI HA NASCOSTO IL SUO VOLTO
Ho quarantatre anni e quando guardo al mio passato posso dire, per quanto è possibile ad un uomo
affermare qualcosa con certezza, che ho avuto una vita meravigliosa. La mia vita in tempi passati è
stata benedetta dalla gioia, ma non sono mai stato presuntuoso. Aprivo la mia porta ad ogni uomo
bisognoso ed ero felice quando potevo far qualcosa per il mio prossimo. Ho servito Dio in un
abbandono confidente e gli chiedevo soltanto di poterlo servire “con tutto il cuore, con tutta la mia
anima, con tutte le mie forze”. Dopo tutto quello che ho sopportato, non posso affermare che tale
disposizione d’animo sia rimasta immutata, ma posso dire con certezza che la mia fede in Dio non è
cambiata di uno iota. Un tempo, quand’ero felice, andavo a Lui come a qualcuno che ti ha accordato
dei favori. Ora mi rivolgo a Lui come a qualcuno che è diventato un po’ mio debitore. Credo di
avere il diritto di fare a Dio le mie rimostranze.
Eppure non chiedo, come Giobbe, che Dio mi indichi con la sua mano le mie colpe affinché io
sappia perché merito un castigo. Uomini più grandi e migliori di me pensano che gli eventi attuali
non sono un castigo dei nostri peccati. Sta succedendo qualcosa di sorprendente nel mondo. Ed è
per questo che gli uomini si abbandonano alle loro passioni selvagge. Ed è naturale che in un tempo
in cui queste passioni regnano nel mondo le prime vittime siano quelli nei quali ciò che è divino ed
è puro sopravvive ancora.
Forse non è molto consolante: ma la sorte del nostro popolo non è stabilita da leggi terrene, ma da
leggi ultraterrene. Chi impegna la sua fede in questi eventi deve vedervi una parte del grande
regolamento di conti divino in rapporto al quale le tragedie umane sono prive di significato. Questo
non vuole dire che un pio ebreo accetti il giudizio così come gli arriva e dica: “Dio ha ragione, il
suo giudizio è giusto”. Dire semplicemente che meritiamo i colpi che abbiamo ricevuto significa
disprezzare noi stessi e disprezzare anche il Nome di Dio.
E così non aspetto un miracolo, non prego il mio Dio perché abbia pietà di me. Mi mostri pure a
stessa indifferenza che ha mostrato a milioni d’altri uomini del suo popolo: io non sono
un’eccezione alla regola e non mi aspetto che mi accordi un’attenzione particolare. Non cercherò di
salvarmi da me stesso; non cercherò di fuggire da qui. Ecco, preparo il lavoro bagnando i miei abiti
di benzina – me ne restano tre bottiglie di tutte quelle dozzine che ho versato sulla testa di quei
criminali. Mi sono care, così come è caro il vino a chi sene ubriaca. Quando avrò versato l’ultima
bottiglia sui miei abiti, metterò questa lettera nella bottiglia vuota e la nasconderò tra le pietre della
finestra. Se qualcuno più tardi la troverà potrà capire, forse, i sentimenti di un ebreo, di uno di quei
milioni di ebrei che sono morti, un ebreo abbandonato a quel Dio nel quale credeva con tanta forza.
Eravamo in dodici in questa stanza quando è iniziata la rivolta. Abbiamo combattuto il nemico per
nove giorni. I miei undici compagni sono morti. Sono morti dolcemente. Anche questo ragazzo è
morto in pace come i suoi compagni più vecchi. È accaduto questa mattina presto. Si era
arrampicato sui cadaveri per guardare attraverso la finestra. Restò accanto a me per qualche minuto.
Poi, all’improvviso, cadde all’indietro e restò immobile come una pietra. Tra i due ciuffi di capelli
sulla sua fronte pallidissima c’è una goccia di sangue. Ieri mattina, quando il nemico diede inizio
all’offensiva erano ancora tutti vivi. Tutti e undici. Cinque erano feriti, ma continuavano a lottare.
Sono morti tutti in questi due giorni.
IO CREDO NEL DIO DI ISRAELE,
ANCHE SE HA FATTO DI TUTTO PER SPEZZARE LA MIA FEDE.
Mi restano soltanto tre bottiglie di benzina. Non ho più munizioni. Dai tre piani sotto di me si spara
ancora. Ma non posso scendere ad aiutarli perché la scala non esiste più; sembra che la casa debba
crollare da un momento all’altro. Scrivo queste righe sdraiato per terra. Attorno a me i miei amici
morti. Guardo i loro volti, sembra che mi sorridano: “ Un po’ di pazienza, ancora qualche minuto e
anche tu vedrai tutto molto meglio”… Ma per il momento sono ancora vivo e finché non muoio
voglio parlare al mio Dio come un semplice uomo, un vivente che ha il grande, ma funesto
privilegio di essere ebreo. Sono molto fiero di essere ebreo perché è duro, molto duro. Sono felice
di appartenere al popolo più felice della terra, che ha la Torah quale morale suprema e legge
sublime.
Credo nel Dio di Israele anche se ha fatto di tutto per spezzare la mia fede in Lui. I miei rapporti
con Lui non sono quelli di un servo di fronte al suo padrone, ma quelli di un discepolo nei confronti
del suo maestro. Credo alle sue leggi, anche se contesto la giustificazione delle sue azioni. Mi
inchino di fronte alla sua grandezza, ma non bacerò il bastone che mi castiga. Lo amo, ma ancor di
più amo la sua legge. E anche se mi fossi sbagliato nel suo conto, io continuerei ad adorare le sue
leggi. Dio significa religione, ma la sua legge significa sapienza di vita. Tu dici che noi abbiamo
peccato. Certamente abbiamo peccato. Che dobbiamo ricevere il castigo è giusto. Vorrei però che ti
mi dicessi se esiste sulla terra un peccato che meriti un simile castigo. Ti dico tutto questo, mio Dio,
perché credo in Te, perché credo in Te più che mai, perché ora so che Tu sei il mio Dio e non il Dio
di quelli i cui atti sono il frutto orrendo della loro empietà.
Non posso lodarti per quegli atti che Tu sopporti, ma ti benedico e ti lodo per la tua magnificenza
che ispira timore. La tua maestà deve essere immensa se tutto quello che sta accadendo non riesce a
impressionarti. La morte ormai non vuol più aspettare. Devo concludere. I colpi dei fucili ai piani di
sotto si fanno sempre più deboli di minuto in minuto. Cadono gli ultimi difensori del nostro rifugio
e con loro cade la grande e bella Varsavia ebrea che temeva Dio. Il sole tramonta e io te ne
ringrazio, Dio, di non vederlo sorgere mai più. Dei raggi rossastri mi arrivano attraverso la finestra,
il pezzetto di cielo che riesco a vedere è in fiamme. Tra un’ora al massimo sarò riunito a mia
moglie, ai miei figli, a milioni di figli del mio popolo in un mondo migliore dove non regnano
dubbi, dove Dio è l’unico sovrano.
Muoio dolcemente, ma non sono soddisfatto; abbattuto, ma non disperato; muoio nella fede, ma
senza innalzare suppliche, muoio confessando il mio amore per Dio, ma non dico Amen
ciecamente. Ho seguito Dio, anche quando mi ha respinto lontano da Lui. Ho adempiuto il suo
comandamento, anche quando, quale ricompensa di questa obbedienza, mi colpiva. L’ho amato. Ero
e sono tuttora innamorato di Dio, anche quando mi ha gettato a terra, mi ha torturato fino alla morte,
mi ha reso oggetto di obbrobrio e derisione.
Puoi torturarmi fino alla morte, ma crederò sempre in Te. Ti amerò sempre, malgrado Te. Queste
sono le mie ultime parole, Dio della collera: non riuscirai a farmi rinnegare la fede in Te. Hai fatto
di tutto perché io non credessi più in Te, perché io cadessi nel dubbio. Ma io muoio così come ho
vissuto con una grande fede incrollabile.
Sia lodato in eterno il Dio dei morti, il Dio della vendetta, il Dio della verità e della legge, che
presto mostrerà di nuovo il suo volto al mondo e farà tremare le fondamenta con la sua voce
potente.
Ascolta, Israele, l’Eterno è il nostro Dio, l’Eterno è l’Unico e il Solo

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Una vita di illusioni e felicità - "uno di noi"
di Loris Pavan 
ed. Albatros

Una vita di sacrifici e di dolori quella di Luigi Pavan, caratterizzata da viaggi di speranza. Dall’Africa, dopo aver perso la cara mamma, si trova deportato e internato in un lager nazista, costretto ai lavori forzati nelle miniere o nel ripulire le strade. Tornato  nalmente in Italia decide di partire per l’Argentina, per garantire a se stesso e alla donna che ama un avvenire felice. Dopo la caduta di Peròn l’Argentina a ronta un periodo di crisi che costringe Luigi e Maria, l’amata moglie, a tornare in Italia per il bene della loro famiglia. La fatica e i sacri ci continuano, Luigi è costretto a lavorare alternamente in Svizzera e in Francia, pena la perdita dell’infanzia dei  gli e la lontananza da Maria. Tratto da una storia vera, Una vita di illusioni e felicità ci apre una  nestra su un angolo di storia che mai verrà dimenticato, facendo scaturire in noi una vasta gamma di emozioni, dalla commozione al rimpianto, ad una simbiotica nostalgia.

Loris Pavan è nato a San Donà di Piave nel 1952. Senza alcuna precedente esperienza narrativa, ha deciso di raccontare questa storia tratta dalle memorie trascritte in un quadernetto consunto di suo padre, da indagini nei luoghi dove ha vissuto le sue esperienze di vita, seguite per oltre due anni da periodiche interviste a suo padre per ra orzare l’attendibilità dei fatti.



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SABATO 26 NOVEMBRE 2011
0RE 15,30 - MUNICIPIO DI CINTO CAOMAGGIORE

NOTE RESISTENTI
Canzoni dal vivo, interventi, letture, musiche 
di Resistenza e Costituzione









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 CLASSI SOCIALI E RISORGIMENTO A PORTOGRUARO


 Venerdì 25 Novembre alle ore 17.30 in Palazzo comunale a Portogruaro
sarà presentato il libro di Imelde Rosa Pellegrini "Classi sociali e
Risorgimento a Portogruaro".

L'opera darà modo di avvicinarsi al Risorgimento in termini locali,
ripercorrendo ciò che avviene proprio nella città del Lemene non solo
grazie alla locale borghesia agraria, ma anche attraverso il
protagonismo del "basso popolo", vale a dire la totalità della
popolazione che approda al Risorgimento non già nel 1866, ma solo con la
Costituzione del 1948.

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